Guitar Club dicembre 2019, articolo di Dario Guardino
Musicista dalla spiccata personalità artistica, Nicola Cantatore è uno dei più interessanti e poliedrici sessioman della penisola. Laureato in chitarra jazz presso il Conservatorio “Santa Cecilia” in Roma ha collaborato per molti anni con artisti quali Rita Pavone e Renzo Arbore, di cui
è tutt’ora è il chitarrista solista nell’Orchestra Italiana con cui è in tournée da ben 12 anni nei teatri di tutto il mondo. Vanta numerose collaborazioni in trasmissioni TV quali “Quelli che il calcio”, “Domenica in”, “Che tempo che fa” oltre ad essere stato ospite in diverse trasmissioni radiofoniche. Molto attivo anche livello didattico, la casa editrice PoloBooks ha pubblicato: “Il manuale completo del blues elettrico” ed il “Manuale di tecnica della mano destra”. Docente dei corsi di chitarra in tantissime scuole della capitale, attualmente insegna presso l’Accademia musicale Risonanze a Roma. Esperto di creazione del guitar-sound, ha tenuto numerosi seminari sul suono e sugli effetti
per chitarra. La recente uscita solista “XXI Century Man” in Vinile, Cd e formato digitale è l’occasione giusta per contattarlo e scambiare quattro chiacchiere sulla musica in generale e sul recente cd solista in particolare-
Ciao Nicola, ci parli dei tuoi inizi? Quando hai deciso di intraprendere la carriera da musicista?
Da adolescente, volevo che la musica fosse parte integrante della mia vita, ho iniziato suonando da autodidatta, ascoltavo “The Wall” dei Pink Floyd, ed ero ammaliato dal suono di chitarra di Gilmour, passavo i pomeriggi studiando da solo ma soprattutto suonando i più disparati generi musicali: il rock all’inizio, poi la passione per il blues ed il Jazz, ma non ho mai disdegnato situazioni di musica diciamo “commerciale”, per cui mi son fatto le ossa con tantissime band suonando di tutto. Più suonavo e più prendevo contatti ed ingaggi, e così la mia grande passione è divenuta il mio lavoro.
Quali sono i tuoi chitarristi / musicisti di riferimento?
Agli inizi ascoltavo i pilastri della chitarra rock, Blackmore, Page, Gilmour, Santana, Clapton, poi i virtuosi, Van Halen, Vai, Satriani, Gary Moore poi è arrivata alle mie orecchie il blues elegante di Robben Ford e quello sanguigno di Stevie Ray Vaughan assieme alla fusion, da Larry Carlton ad Allan Holdswoth, Stern, Scott Henderson, che mi ha portato a studiare i giganti del Jazz, Da Metheny a Benson, McLaughlin, Wes Montgomery, Al di Meola. Attualmente mi incantano le sonorità di Bill Frisell, però son stato sempre attratto dal “sound” che creano le band nel loro insieme, dal Jazz sperimentale al Country. Per quanto riguarda i chitarristi italiani mi è sempre piaciuto molto Franco Mussida, ma diciamo che mi piace ascoltare musica indipendentemente se ci siano chitarre o meno, ad esempio apprezzo la produzione musicale di Anousha Shankar, per cui se viaggi con me in auto puoi ritrovarti ad ascoltare musica Indiana, e subito dopo il progressive rock di Steve Wilson con i Porcupine Tree, oppure le eteriche sonorità jazz della produzione dell’etichetta ECM di Manfred Eicher per arrivare alla buona musica itraliana della PFM o a Franco Battiato!
E’ da poco uscito il tuo nuovo cd, XXI Century Man, che abbiamo trovato a dir poco straordinario. Sia a livello di songwriting, sia a livello di produzione, con suoni di chitarra curati all’inverosimile. Puoi parlarci della genesi dell’album?
L’idea di produrre quest’album nasce qualche anno fa, ho sempre scritto musica anche per altre produzioni musicali, però sentivo l’esigenza di esprimere il mio essere musicista in questo specifico momento, per cui ho ripreso dei vecchi brani e ne ho composti di nuovi sviluppando l’idea di un “concept album” proprio come negli anni 70! Non mi interessava fare un disco prettamente chitarristico, ma un disco di “musica” a 360°, ho iniziato la pre produzione lavorando su tutti gli aspetti dell’arrangiamento, scritto parti per fiati, parti vocali, programmato le batterie e le percussioni, tastiere e quant’altro. Le parti vocali son state affidate a tre cantanti diverse, per avere le caratteristiche vocali giuste su ogni parte
cantata. Le chitarre e i bassi le ho registrate nel mio home studio, per le chittarre elettriche ho utilizzato shure SM57 e Sennheiser E906 assieme, miscelati poi nel mix, tutti gli altri strumenti presso il “Bloom recording studio” di Walter Babbini. Walter è un caro amico e si è preso cura del mio progetto curando maniacalmente gli aspetti del suono, utilizzando il meglio della tecnologia in studio di registrazione, con
macchine totalmente analogiche: avrai notato l’ariosità e il dettaglio del suono della batteria…è stata ripresa con ben 20 microfoni! Ho scritto tutti i testi, adattati in inglese grazie ad un mio carissimo amico Fabio Suttle che vive a Londra; il disco narra del disagio dell’uomo del XXI secolo in questa società che tende a farci vivere una vita sempre più veloce, più “liquida” per citare Zygmunt Bauman. Un vivere che è per me lontano dalla natura dell’essere umano; tra le mie letture preferite rientrano George Orwell, Jodorowsky, Gurdjieff, e i testi risentono della corposità della mia biblioteca.
Siamo rimasti particolarmente colpiti dalle atmosfere che definiremmo “oniriche” dell’album. Dagli echi “Floydiani” di Kate, alle aperture armoniche mozzafiato di Daisy, agli arpeggi sghembi di Atlantis, alle orientaleggianti Misirlou e Guitar, Sea, Peace… Sembra non manchi nulla….
Si, c’è stato un grosso lavoro di ricerca armonica nei brani, non amo molto le progressioni accordali “scontate” per cui ho cercato anche nel “songwriting” di ricercare armonie non banali ma con melodie ascoltabili, fruibili. Per me la musica è un qualcosa che all’ascolto ti deve portare in un altra dimensione, onirica, sognante, che ci regali delle suggestioni; per rimanere ancorati alla “terra” abbiamo già nell’aria tanta musica da ballo, basta accendere le radio! Sono affascinato dalle culture orientali, mi sono interessato di musica indiana e mediorientale, Misirlou è
l’unica “cover” del disco, in cui mi son divertito a miscelare la sonorita etniche con il progressive, ho usato chitarre a 12 corde, chitarra sitar e strutturato il solo di chitarra su misure di 10/8 e 14/8. Invece l’arpeggio “sghembo” come lo chiami tu nel brano “Atlantis” è una frase costruita su una scala superlocria con dei cromatismi, utilizzando però anche le corde libere come nella musica country! Un arpeggio “Jazz-progressive-country”, che però non è un esercizio di stile, la frase scaturisce dall’idea di creare una suggestione, nel testo del brano si parla di cadere indietro nel tempo, e ho voluto in musica ricreare proprio una sensazione di caduta libera indietro nel tempo, il tutto condito con l’utilizzo del buon vecchio binson echorec.
Skaky Blues è una escursione in territori blues, genere del quale sappiamo che sei un profondo estimatore. Qual è il tuo rapporto con la musica del diavolo?
Adoro la libertà espressiva del blues, il suo esser sempre diverso pur rimanendo ancorato alla stessa inevitabile progressione armonica..Il blues è quello che suono quasi sempre quando prendo in mano una chitarra, mi da soddisfazione sia giocare con le semplici pentatoniche che con sostituzioni più complesse. Shaky Blues è nata così, ricercando delle variazioni melodico – armoniche, che poi mi hanno portato ad una struttura di 16 misure. In fase di arrangiamento ho voluto creare un sound “vintage” ma comunque alternativo, per questo ho inserito una tromba che improvvisa nell’intro e risponde poi alla voce, la chitarra elettrica con il tremolo, l’acustica che accompagna e non faccio assoli, ripropongo solamente il tema! Probabilmente questa mia passione per le 12 misure nell’immediato futuro sfocerà in un progetto tutto
basato sul blues, forse un EP. Ho suonato il blues nei miei primi approcci con la chitarra, lo suono oggi, credo che lo suonerò sempre e non mi stanca mai, è una musica che è oltre il tempo, quello che cambia, con il passar del tempo, è solo la propria consapevolezza del peso di ogni nota in quelle maledette misure!
Nelle nostre numerose chiacchierate abbiamo parlato spesso di effetti, ampli, chitarre, di gear insomma. Che genere di setup adotti in genere? Anche facendo riferimento all’album, se ti va.
Ho attraversato diverse fasi dal punto di vista della ricerca sonora, dal vivo per un lungo periodo ho usato rack imponenti, avevo il triaxis della Mesa Bogie, Il JMP1 Marshall, finale Mesa Boogie 2/90, casse di tutti i tipi, processori a rack e tutto quello che c’era di tecnologico; ciò mi ha permesso di avere una buona padronanza delle apparecchiature elettroniche. Poi, molti anni fa, quando ero in tour con Rita Pavone, complice una testata Bandmaster silverface degli anni 70 (il rack era in revisione) al soundcheck il fonico mi disse..”fermo li…che cosa hai fatto al suono”????” E io risposi: “Niente..c’è solo la mia strato e l’ampli!” Arrivava sotto il palco una botta impressionante. Da li mi son orientato sempre su ampli monocanale, semplici, diretti, Hiwatt DR103, Carr, Cornell, ho anche un Fender Bassman modificato da Costalab, dei vecchi Fender champ12. Da una decina di anni la mia chitarra preferita rimane la Telecaster in tutte le sue varianti, ne ho con pick up humbucker, con corpo thinline hollow body, poi stratocaster e Les Paul, e tante semiacustiche, adoro il suono della chitarra semiacustica: Gibson 135, Es175, e una ES275. La tele è una chitarra versatilissima, ne ho una in particolare modificata da me con minihumbucker al manico e singolo al centro, oltre al classico pick up al ponte, ci suono tutto, dal Jazz all’hard rock. Con l’Orchestra Italiana di Renzo Arbore uso invece un simulatore della two notes, il Torpedo Cab, in orchestra siamo in tanti e si cerca di avere il suono più pulito possibile sul palco, per cui si suona in cuffia
e il segnale della chitarra si manda nel mixer. Per il resto un compressore Costalab, overdrive Maxon e Wampler Pinnacle, AC Booster e delay che ruotano mensilmente…non ho pace con i delay! Nel disco ho optato la filosofia del suono giusto per il pezzo, senza fissarmi su un amplificatore o una chitarra in particolare, sperimentando così tantissime combinazioni tra chitarre, pedali ed amplificatori. Per i soli distorti mi son affidato prevalentemente al Cornell EC40 come amplificatore e al Secret 1 di Guido Borghesani come overdrive, pilotati da una Les Paul, su altri brani ho mandato la stratocaster sull’Hiwatt provando diversi tipi di overdrive. Modulazioni e delay tutte in post, durante il missaggio.
Anche il Fender Bassman mi è stato di aiuto sui suoni puliti. Per i pedali ho usato come overdrive Fulltone OCD e Fulldrive, Wampler PlexiDrive, Secret -1, poi un Big Muff Sovtek modificato con resistenze ad impasto di carbone (favoloso) da Costalab, Cornish SS2 e
come compressori il Compulator e un Maxon Compressor/Limiter. Non dimentichiamo che nel disco ho suonato anche il basso su tutti i pezzi. Il basso elettrico è la mia grande passione, ho iniziato a studiarlo e suonarlo più di 10 anni fa. Ho un Precision, Un Jazz, un Rickenbacker ed un Hofner semiacustico che adoro. In ogni brano c’è un basso diverso, l’Hofner ha un timbro molto simile al contrabbasso, è stato utilissimo in “Angel of Rags” che è un brano per big band; con il Rickenbacker invece ho suonato le parti solistiche di basso.
A questo proposito come definiresti il tuo playing? Premettiamo che siamo rimasti molto colpiti dalla disinvoltura in cui affronti melodicamente situazioni armonicamente oseremmo dire intricate…
Si, mi piace creare armonie particolari, non scontate, tuttavia posso dire che mentre è facile creare armonie “strane”, il difficile poi, è dare musicalità a queste progressioni, creando melodie cantabili. Questo è uno dei miei obiettivi, creare musica non scontata, armonicamente evoluta, non basata sul solito schema strofa – ritornello, con una melodia fruibile anche dall’orecchio dei non musicisti. David Gilmour
e Larry Carlton son stati per me dei riferimenti, con i loro assoli sempre melodici e cantabili. Quando creo un solo, la priorità va alla “musicalità” della costruzione delle frasi, se poi per far crescere il climax del solo, serve una frase molto veloce, allora la inserisco, ma il tutto deve essere in funzione della musica e del suono. Su “Atlantis” per esempio, nelle misure finali c’è un assolo in cui improvviso usando la scala
esatonale, una scala abbastanza “dura” all’ascolto, i quel contesto armonico con sonorità di triadi aumentate, mi sbizzarrisco con dei legati molto veloci che portano così alla chiusura del brano, invece nella parte centrale del brano, all’opposto, c’è un altro assolo basato su accordi più dolci in cui cerco di suonare note morbide, dolci, curando l’espressione e la liricità delle frasi. La domanda che ogni musicista dovrebbe porsi quando esegue un assolo è: “bello, mi piace, mi rappresenta, ma…all’interno del pezzo, il mio assolo, funziona?” E’ importante sganciarsi dalla pura tecnica strumentale, senza guardare se si è fanno una nota o cento, bisognerebbe guardare in primis alla “funzionalità” della creazione musicale.
Sei molto attivo a livello didattico. Come ti poni nei confronti della didattica?
Mi è sempre piaciuto insegnare, fare in modo di poter facilitare altre persone nel loro percorso musicale. Ho studiato con tanti ottimi musicisti, anche in Conservatorio ho conosciuto bravissimi insegnanti da cui ho appreso diverse metodologie di insegnamento. In generale il mio approccio è molto “olistico” (passami il termine) nel senso che cerco prima di tutto di capire chi ho davanti, la persona, quali sono i suoi
obiettivi e cercare la maniera migliore di mettere a disposizione le mie conoscenze e la mia esperienza per essere utile al percorso musicale dell’allievo. Insegno le tecniche chitarristiche ma anche l’armonia, che permette di sviluppare una comprensione di come sono costruiti i brani musicali su cui suoniamo. Oggi c’è grazie all’enorme diffusione dei tutorial su youtube una enorme diffusione di informazione, ma spesso trovo approssimazione, imprecisioni, errori anche gravi!
Chiudiamo con la fatidica domanda: che consigli daresti a chi volesse intraprendere la strada del professionismo?
Suonare, suonare e suonare tanto, e quando si vedono i risultati sia musicali che professionali non sentirsi mai arrivati. Nel mio percorso artistico ho avuto la fortuna di girare il mondo, ho conosciuto molti musicisti e mi son reso conto che c’è da imparare da tutti. Ognuno di noi ha la sua unicità, la propria essenza artistica che è propria, bisogna esser aperti al prossimo, non competitivi; Poi ovviamente cercare il proprio sound sullo strumento, la propria voce personale sulla chitarra e ultima cosa, ma importantissima, capire la funzione della chitarra nel contesto dove si suona, ragionare da arrangiatori! Sembra scontato ma poi non lo è, per cui studiare bene l’armonia, la composizione, l’arrangiamento trovo sia parte integrante della conoscenza musicale per esser un buon chitarrista.