Music Map, Recensione di Gilberto Ongaro
Quando un chitarrista melodico e virtuoso, con uno stile blues affine a quelli di Robben Ford e Larry Carlton, pubblica un album, ci si aspettano pezzi con lunghissime digressioni soliste. Invece Nicola Cantatore non cede alla tentazione, e concepisce il suo “XXI Century Man” con un approccio prog variopinto, che coniuga molte atmosfere diverse, dove i suoi assoli, che pure ci sono, costituiscono solo una parte del tutto. Il sorprendente LP si apre con “Daisy”, dove hanno eguale importanza il solo espressivo di Nicola, l’arrangiamento di pianoforte, archi, basso fretless e batteria, e la voce femminile (ci sono tre diverse cantanti alternate nel disco). In “Angel of rags” invece, fondamentale è la sezione fiati, che alla fine dialoga con la batteria galvanizzante. E qui con le armonie e la cantante ci si immerge in un elegante jazz. Voci di aeroporto introducono “Kate”, un pezzo da Goldfrapp degli inizi, quelli magici di “Utopia” e “Lovely head”. Il riff principale del brano è basato su due accordi distanti una quarta eccedente (tipo SI – FA), la sequenza armonica preferita da chi scrive colonne sonore mozzafiato, tipo Elfman o Zimmer. Il testo è altrettanto evocativo: “Ghosts on the streets, New York Magazines (…) and it’s all lies”. “Atlantis” è un rock con inserti elettronici e sospensioni armoniche, dove la voce ancora una volta ci accompagna lievemente sott’acqua. Interessante la chitarra di Cantatore, quando prorompe in una sequenza melodica inusitata, per poi trasformarla in un intenso assolo elettrico. Come se non bastasse, verso la fine si indugia in un’armonia esatonale, quindi ancora più tesa. Non ci si risparmia in emozioni, neppure nel brano seguente più tradizionale, “Shaky blues”. Che è per l’appunto un blues principalmente acustico, con la voce che si lamenta coi vocalizzi, e sax e tromba che si alternano a risponderle, improvvisando con gusto. Poi è il momento di una delle arie più rivisitate della storia della musica: “Misirlou”, che mantiene intatto il suo fascino, e la donna che la intona (Martina Pelosi) ci aggiunge acciaccature mediorientali, dentro un’interpretazione ardente. La temperatura rovente del deserto è garantita dalla darbuka. Finite le sorprese? Non ancora. Restando nella sabbia, è il turno di un coro polifonico per “Dramatic theme” che, per come è scritto, a tratti ricorda la maestosità di quello al centro della suite di “Atom heart mother” dei Pink Floyd. Si introducono delicatamente delle percussioni indiane, che anticipano il seguente “Dream of India”, che ha il sapore del progressive anni ’70, con quell’arrangiamento col piattino e il sitar. Ma il sentimento principale resta quello della moderna colonna sonora conturbante, più che la solita ricetta hippie. Forse questo brano starebbe bene anche in una compilation di Buddha Bar, o delle Montecarlo Nights, poiché il risultato è quasi lounge. Infine “Guitar, sea, peace” ci porta al mare, tra i rumori delle onde, con una chitarra acustica serena e rasserenante, accanto a un’elettrica suonata con slide, indecisa tra l’essere gilmouriana o hawaiana. Una conclusione conciliante e rilassante, dopo intense e ricercate suggestioni. Un bel lavoro questo di Nicola Cantatore, che non si preoccupa (finalmente) di questa fissazione da rock band di seguire un’unica direzione per sembrare coerente a tutti i costi. L’unica cosa che rende coerente tutti i pezzi è la raffinatezza. (Gilberto Ongaro)
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